venerdì 25 aprile 2008

PARSIFAHL RICORDA


Il vecchio ciclostile.......

Ero piccolino, quando accovacciato con le ginocchia su una sedia posta con la spalliera vicino ad una vecchia scrivania in legno, appoggiavo il mento sul piano in formica verde e guardavo con un misto di curiosità e felicità cosa combinava mio padre.
L’odore dell’inchiostro misto al solvente che serviva per diluirlo mi colpiva forte le nari, ma non ci facevo caso e non m’importava, in quanto veder usare un vecchio ciclostile era per una me un’attrazione più interessante di un cartone animato in bianco e nero di Titti e del Gatto Silvestro che raramente la RAI mandava in onda in quel periodo.
Seguivo mio padre nei suoi movimenti nell’ampio salotto, come un cagnolino segue il suo padrone, delle volte anticipandolo e delle volte soffermandomi alle sue spalle, passando dalla scrivania alla macchina da scrivere Olivetti, già usata da mio nonno per scrivere le sue arringhe.
Ero incuriosito e mi domandavo perché, invece di usare nella macchina da scrivere i soliti fogli bianchi con la carta carbone, usasse quei fogli strani, molto sottili ma coperti da uno strato di cera.
Vedevo picchiettare velocemente i martelletti su questi strani fogli e man mano che le parole scorrevano dietro il nastro a tre colori, nero, rosso e blu, cercavo di comparare le sbavature tra lettere simili, in una gara di abilità contro me stesso.
La “erre” mi attirava più delle altre lettere in quanto la parte tonda veniva forata quasi completamente; la “e” era illeggibile a causa de pilucchi del nastro annidati sul martelletto, mentre il puntino sulla “i” era inesistente e pensavo tra me “…. la maestra insiste a farmi scrivere la paginette delle “i” e le vuole tutte con i puntini…. E lui perché invece può saltarli? Ma capiranno quello che scrive?”.
Mentre mi attardavo in questi ingenui pensieri, ad ogni fine rigo sentivo la campanella della macchina da scrivere suonare con un “ding” cristallino e lesto, il mio papà, spingeva una leva metallica ed accompagnava il tamburo della vecchia Olivetti al nuovo capoverso, con un gracchiare delle frizioni dei rulli di tenuta fogli.
Completato il testo, con un rapido gesto, che avevo visto fare ripetutamente anche in precedenza con i soliti tipi di fogli e che mi catapultava in uno stato di angoscia in quanto temevo che si strappasse tutto il lavoro portato avanti con tanta fatica, estraeva dai rulli di tenuta, tra un gracchiare di frizioni ancora più accentuato, i delicati fogli cerati, quindi, si sedeva nuovamente dietro la scrivania e prelevava da un cassetto una scatoletta di plastica. All’interno c’era un normografo accompagnato da una strana penna, che al posto della punta a sfera era montato uno strano triangolino in metallo con un vertice di esso che ne completava la sua massima estensione. Con la penna-stiletto e ripetendo le movenze di un abile bulinatore, realizzava dei disegni che rappresentavano simboli antichi e pregni di storia dei quali ne ero affascinato ma che all’epoca non ne capivo il loro profondo significato.
Tirava una linea con mano ferma e sicura, quindi rimuoveva la cera scavata dalla punta metallica e quindi tirava una nuova linea per poi ripulire la sommità del pennino, e poi ancora un’altra linea fino a far apparire un disegno che solo mettendomi di sbieco ne riuscivo ad intendere il suo ultimo significato, e logicamente solo a livello figurativo.
Come un amanuense che completa la sua parte di vangelo abbellendolo con icone e glifi dal significato arcano, al di sotto dei simboli del partito a cui era legato, mio padre inseriva lettere puntate che mi divertivo a trasformare in iniziali di nomi da associare ai miei compagni di gioco virtuali e fantastici.
Il vecchio soldatino di plastica Mr. Jhon, il pagliaccio di pezza sig. Pongo e la papera Iris, tutti che prendevano le letterine, con tanta fatica, per spostarle dal foglio cerato fino alla superficie dei fogli giallognoli.
Completati i disegni e dopo aver riposto il pennino nella scatoletta, separava la matrice dal foglio cerato e sistemava quest’ultimo sul telaio del ciclostile, stendendolo in maniera tale da evitare qualsiasi piegatura ed infine chiudeva su di esso il controtelaio, imprigionando il foglio sotto lo scuro telo retinato, del quali ne percepivo la fragilità, vista l’accortezza che usava il mio papà nel toccarlo.
A questo punto arrivava la parte simpatica di tutta la missione, in quanto, puntualmente mi veniva richiesto di spremere il grande tubettone di inchiostro della Pelikan su una vaschetta posta a margine del telaio e dopo averlo preso con le mie due manine, lo spremevo leggermente come se fosse del dentifricio e ridevo a crepapelle nel sentire il rumore, simile ad una pernacchietta, che veniva emesso dal beccuccio del tubetto in occasione dell’uscita del nero colore.
L’operazione veniva completata nel momento in cui veniva versato del solvente, ancora più aromatico dell’inchiostro, per poi, con un piccolo rullo, iniziare a mescolare il tutto con la mancina, mentre con l’altra mano apriva un’anta della scrivania e ne estraeva una risma di carta.
Ancora conservo qualche vecchio foglio, che si presenta con una grammatura decisamente pesante, al tatto è quasi crespo e con il proprio colore tendente al giallo, certamente non generato dalla vetustà, ma di originale fattura.
Dopo essersi umettato il pollice e l’indice, anche se con una certa difficoltà, prelevava il primo foglio della risma e lo adagiava sul piano di lavoro del ciclostile, quindi lo allineava a due bordi in rialzo finalizzati a permettere il corretto posizionamento del singolo foglio e quindi della successiva centratura del testo all’interno di esso.
Ancora qualche colpo di rullo per finire di mescolare l’inchiostro nero ed aromatico, quindi con la destra abbassava il controtelaio sul foglio, mentre la molla di ritorno si dilatava ed emetteva un nuovo suono che si mescolava al cinguettio, di piccoli fringuelli e proveniente da un balcone aperto su un campo, ormai già fiorito per la primavera avanzata. Le falangi e le falangette del pollice e dell’indice, che collaboravano a tener abbassato il controtelaio, cambiavano gradatamente colore, passando dal roseo color carne ad un bianco pallido e questo a causa della forte pressione impressa.
Con la coda dell’occhio vedo il piccolo rullo iniziare a volteggiare in aria seguendo un rotta immaginaria che, in teoria, sarebbe servita ad evitare che cadessero grosse gocce di inchiostro, ma che in effetti non cadranno mai, vista la densità del composto odoroso.
Allineato il rullo all’angolo sinistro nella zona alta del controtelaio, velocemente lo vedevo muovere dall’alto in basso fino a colorare di nero tutto il telaio retinato, nascondendo definitivamente alla mia vista quel poco che riuscivo ancora ad intravedere della sottostante carta cerata.
Alzo lo sguardo verso il contenitore dell’inchiostro, pensando che il rullo ritorni al uso posto, invece, prendendomi quasi in giro con i suoi movimenti repentini, ritorna nella zona alta del controtelaio ed ora va avanti ed indietro, da sinistra a destra, calando a zigzag fin verso la zona bassa del ciclostile. Solo alla fine della sua opera efficace, il rullo viene posto nel contenitore dell’inchiostro, mentre il controtelaio si alza, richiamato dalla molla e dal suo classico verso metallico, proprio perché libero dalla pressione delle due dita.
Le stesse dita prelevano quel foglio, che fino ad un istante prima era del tutto intonso ed ora pieno di macchioline non uniformi, quindi lo alzano mettendolo a favore della luce proveniente dal balcone e con il fare di un vecchio primario di ospedale, mio padre lo analizzava come se si trattasse di una radiografia al torace.
Un borbottio, quindi un “mah!” ed infine, puntualmente, adagiava l’opera prima, decisamente non valida, vicino al fianco della valigetta, quella valigetta in legno laccato che conteneva il kit completo del vecchio ciclostile.
Prima di piazzare un nuovo foglio sul piano di lavoro, si rivolge a me con un sorriso che lascia il posto ad uno sguardo serio ed impegnativo, quindi mi dice con tono serioso: “Mi aiuti? Quando alzo il telaio, togli il foglio e mettilo sul divano. Il secondo foglio mettilo al suo fianco. Non metterlo sopra. Dopo che hai messo 10 fogli sul divano, puoi iniziare a metterli uno sull’altro, però partendo dal primo e comunque aspetta che l’inchiostro sia asciutto”.
Sono raggiante, in quanto sento di diventare parte integrante di un’avventura che non so a priori che soddisfazioni mi darà. Alzo il mento dal tavolo, quindi smonto dalla sedia dove mi sono precedentemente accovacciato nuovamente, e mi sistemo a fianco a lui, per iniziare la mia nuova avventura nella vecchia politica.

Era una politica diversa da quella di oggi.
Gli odori, i colori, i sapori erano un tutt’uno con gli ideali che venivano spiegati solo in parte da alcuni abili oratori nei comizi di piazza o nelle rare presenze televisive.
Abili oratori che venivano osannati e ritenuti da tutti dei messia ed i quali sapevano profferire paroloni di spessore elevato ma che noi giovani virgulti traducevamo in due o tre parole che ancor oggi non riescono ad essere un momento di confronto, ma solo di scontro, come fascismo, comunismo, democrazia, laburisti e conservatori, democratici e repubblicani, nord e sud.
I fogli ciclostilati venivano distribuiti durante i comizi, oppure lasciati nella “sezione” frequentata dai soliti amici, oppure lanciati dal finestrino della “500” tappezzata con manifesti e incoronata, come una reginetta di bellezza, dalle trombe degli altoparlanti di colore grigio che trasformavano la voce o la musica del mangianastri in un suono riverberato e metallico simile a quello che usciva quando si gridava nelle lattine di alluminio svuotate dai rossi pomodori pelati.

La vecchia valigetta in legno laccato contenente il kit completo del ciclostile non so dove possa esser finita.
Durante le attuali campagne elettorali, i fogli che vedo girare sono frutto di arti tipografiche che una volta si pensava fossero impossibili. Qualità, bellezza, trasposizione della realtà e delle volte anche ritocco della realtà.
L’inchiostro, forse velenoso, non dovrebbe aver portato conseguenze ai miei polmoni ed il numero di fogli che veniva usato all'epoca non arrivava a quattro cifre e quindi non penso che mio padre si sia reso complice della distruzione di qualche foresta, disboscata per ottenere pura cellulosa o altresì, non saremo mai responsabili dell’aumento spropositato dei rifiuti connessi allo smaltimento della carta.

Al giorno d’oggi, i giornali sono paragonabili al vecchio ciclostile del mio papà, ma con delle differenze sostanziali:
a) Le parole che leggo su di essi sono spesso scritte da persone che di “ideali” non hanno la più pallida idea di cosa siano e come si formano;
b) Il più delle volte, fatte rare eccezioni, penso che si tratti di persone che perseguono solo uno scopo e cioè affermare il loro status economico e migliorarlo il più possibile, costi quel che costi;
c) Viene usata tanta di quella carta in maniera inutile a scapito delle foreste di cui sopra;
d) La stessa carta, evidentemente inutile, diventa poi un rifiuto da smaltire;
e) I costi di distribuzione dei giornali incidono non poco, così come le conseguenze dovute al trasporto delle migliaia di tonnellate di carta da un punto all’altro della nostra penisola.

Anche io ho nostalgia dell’odore dell’inchiostro del vecchio ciclostile, però continuo ad immaginare il mio presente diverso da quello che è, sperando che presto lo diventi.
Quando avremo la possibilità di sostituire la carta con supporti elettronici ?

2 commenti:

Pietro ha detto...

Complimenti! Hai fatto bingo!! Bello raccontare la storia di un oggetto sparito. Ricorda il ciclostile quando trattiamo della gestione del cambiamento su LS (Il Legno Storto).

ambra ha detto...

E' una lode o una critica ?
Per me è necessario ricordare il passato per affrontare il futuro e saperne godere.