martedì 27 maggio 2008

ANTONIO ALBERTO SEMI (click)

UNA FAVOLA PSICHIATRICA
di Antonio Alberto Semi ( Venezia)

C'era una volta, in un paese lontano lontano, alla periferia della
regione della Roeupa, oltre i monti Pial, in un paese chiamato Tailia, un
bambino piccino piccino che era stato chiamato Segiuppe.
Segiuppe viveva con il papà, con la mamma e con un fratellino più
grande che si chiamava Rimano; ma, mentre Rimano era cresciuto libero e felice,
Segiuppe già quand'era nato era sembrato un po' strano.
Non voleva attaccarsi al petto della mamma, e sì che Rimano, che
occhieggiava di lontano, al solo guardare sentiva un languorino ma un languorino
che non vi dico neanche, cioè ve lo dico solo per dire che faceva voglia anche
ai bambini più grandi. Poi piangeva.
Piangono tutti, i bambini. Sì, è vero, ma questo piangeva strano: la
mamma lo prendeva in braccio e non si consolava che dopo ore e ore. Poi bastava
che la mamma se ne andasse per un momento e lui pronto riattaccava. Il papà, che
era un buon uomo e grande lavoratore, si seccava un po' perché, che è, che non
è, a poco a poco la moglie era passata a vivere nella stanza dei bambini. Egli
voleva bene ai tigli, ma voleva bene anche alla moglie e soffriva di vederla
deperire a causa di Segiuppe; e poi rimpiangeva, e un po' si vergognava di
questo suo sentimento, quel periodo in cui, prima cne nascesse Segiuppe e quando
Rimano era già grandetto da dormire da solo, poteva a volte coccolarsi come dio
comanda sua moglie e insomma, sempre come dio comanda, amarla.
Però Segiuppe cresceva bene ed era un bambino bellissimo. Non
giocava, è vero, ma gli altri, al solo guardarlo, si sentivano come affascinati
da questo bimbetto. Non rispondeva, è vero, ma la mamma poteva sempre dire che
faceva apposta, tant è vero che se nienteniente uno scartava una caramella di
nascosto, lui si girava con lo scatto d'un levriero verso il goloso. Però, e
anche questo era strano, non faceva nulla per prenderla, la caramella.
Allora la mamma, che era di cuore grande, ma grande così, prendeva
la caramella e gliela metteva nella manina. Ma lui niente, se la teneva lì per
ore intere, senza mangiarla. Poi d'un tratto, oplà, la caramella era sparita e
si trovava solo la carta.
Divenne più tardi un bambino buonissimo: passata la fase in cui
piangeva sempre, amava stare da solo, sempre nella sua stanzetta e la mamma
sapeva che, se usciva per fare le spese, poteva lasciarlo lì tranquillo
tranquillo e così, tranquillo tranquillo, lo avfebbe trovato al ritorno. Solo,
si arrabbiava tantissimo se appena Rimano faceva per cambiare qualcosa in
camera, spostare un gioco (che peraltro Segiuppe non toccava mai), tirare una
stuoia più in là. Si arrabbiava tanto che la mamma, quando lui (che aveva ormai
due anni) aveva rotto ogni bendidio in camera solo perché Rimano aveva spostato
l'orsacchiotto, aveva pensato di far dormire Rimano in camera grande, cioè
quella matrimoniale, per lasciare a Segiuppe la stanza tutta per se.
Segiuppe, intanto, cresceva ma non parlava. Il papà gli faceva
ghirighiri sotto il mento e lui non rideva, non diceva niente, pareva che il
papà fosse fatto di vetro e lui guardasse di là.
La mamma gridava « Segiuppe, Segiuppe, vieni a mangiare, la pappa e
pronta » e lui non diceva nè ai nè bai. La mamma gli portava da mangiare in
camera e lui prendeva la mano della mamma e la guidava al cucchiaio per farsi
imboccare. « Segiuppe, sei grande, devi mangiare da solo, con il cucchiaio, come
tutti i bravi bambini ». Macché: lui sorrideva, d'un sorriso vago, estatico, che
pareva venisse di lontano lontano, che se si guardava bene era anche un poco
triste, e stava lì.
Venne l'età dell'asilo, ma Rimano dovette continuare ad andar da
solo perché Segiuppe urlava, si dimenava, mordeva, ma non voleva andarci. Un
giorno che la mamma era riuscita a portarlo, dovette tornare a prenderselo dopo
un paio d'ore perché lui era stato lì, da quando era entrato, fermo sulla porta,
duro e pallido come fosse stato di pietra. I bambini lo pizzicavano e lui mancò
ti bado; la maestra lo carezzava e lui giù un morso.
I genitori cominciarono a preoccuparsi. Parlane oggi e parlane
domani, decisero infine di portarlo da un prete, famoso in tMtto il paese per la
sua bontà. Egli aveva beneficato molti. Aveva ospitato ciechi in luoghi
panoramici, portato sordi a concerti di pianisti famosi, aveva istituito piccole
tutti i quartieri della città pe gionieri non si sentissero soli lantropia era
tanto nota cne lo avevano nominato grande sicché poteva decidere, per tutti ,
quali fossero i bisogn no, e stabilire le misure per soddisfatti.
Il suo nome era Sabaglia.
Nonostante fosse indaffaratissimo rivette subito i poveri genitori e
chiese loro perchè mai avessero chiesto di parlargli. « Don Sabaglia, ci aiuti,
disse la mamma, abbiamo un bambino che ci fa perdere il sonno dai tanti pensieri
che ci fa venire. » e, in quattro e quattr'otto, raccontò la storia di Segiuppe.
Don Sabaglia annuiva annuiva mentre la mamma parlava e lei aveva l'impressione
che fosse forse anche inutile parlare, che lui sapesse già tutto. Ma, già che
era lì si fece forza e raccontò.
Alla fine Sabaglia disse: « Ah, amici miei, compagni miei, quanto
vorrei potervi accontentare! Ma mi chiedete una cosa sbagliata, non una
sabagliata, cioè una cosa che posso fare io. Dovete invece fare come vi dirò io
e allora, vedrete, saremo tutti contenti. Dico saremo perché questo problema è
di tutti, non vostro solo e a tutti parlerò perché venga affrontato per il verso
giusto ». Cosi i genitori se ne andarono con l'accordo di ritrovarsi di lì a
pochi giorni, alla riunione del quartiere, dove don Sabaglia teneva le prediche
ogni venerdi.
Don Sabaglia aveva detto di portare anche Segiuppe e il giorno
fatidico, eccoli lì, i genitori ben vestiti, Rimano ancora con il cestino
dell'asilo ( si era dovuto portare anche lui, se no chi gli badava?) e Segiuppe.
I due genitori un po' si vergognavano: erano gente schiva e non si sentivano a
loro agio, tanto più con Segiuppe che si divincolava e d'improvviso, cosa che
non aveva mai fatto si buttava a capofitto contro il muro, con un colpo sordo e
secco che faceva sussultare tutti. Qualcuno protestò, ma, quando i genitori
dissero che erano lì perché lo aveva detto don Sabaglia si tacque. E don
Sabaglia, giunto di li a poco, parlò.
Dovete sapere che in quel paese i preti da lungo tempo non dicevano
più di essere preti e in chiesa non ci andava più nessuno perché le cerimonie
liturgiche si facevano, sotto mentite spoglie, in locali che si chiamavano
centri sociali. Era un paese tremendamente afflitto dalla vergogna e, se uno
avesse chiesto a un altro, l'obbligo di buona educazione sarebbe stato di
rispondere di no, in modo che tutti e due capivano di sì, ma senza dover
affrontare la vergogna di dir come stavano le cose: per questo i preti non
dicevano di esser preti, le chiese non si chiamavano più chiese, le prediche non
si chiamavano più prediche. Ma noi, qui, continueremo a chiamare le cose col
loro nome, perché se no non capiremmo più niente.
Dunque don Sabaglia parlò.
La sua voce, bassa, un po' strascicata, non aveva nulla del tono
dell'arruffapopolo. Era, semplicemente, convincente. Disse che un grande
problema si poneva alla comunità, ma anche una grande occasione per fare un
salto qualitativo. Si trattava di vedere se tutti, non a parole ma a fatti,
erano disposti a caricarsi del problema di questa famiglia. Non era giusto che
essi, soli, si trovassero a gestire Segiuppe. Tutti dovevano farsene carico.
Segiuppe doveva restare sul territorio e tutti, anche quella maestra che aveva
chiamato la mamma perché venisse a prenderselo, dovevano non solo accettare ma
anche valorizzare la diversità di Segiuppe. Segiuppe doveva diventare il nodo
cruciale sul quale venticare la volontà politica di cambiare. Solo così si
sarebbero affrettati i tempi di una vera rivoluzione. (Volendo tradurre per chi
non è abituato al linguaggio tailiano, la predica di don Sabaglia si può
riassumere così: il dolore del fratello èun mistero mandatoci da dio, noi
dobbiamo tutti insieme viverlo, giacché nel dolore si prepara la venuta del
regno del messia).
Fu un intervento (predica, nel nostro linguaggio) memorabile.
Il popolo piangeva e si batteva il petto, la maestra giurava di
volersene far carico anche subito, i genitori, benché duramente provati da quel
che era accaduto tinora, avevano un così grande desiderio di sperare che si
abbandonarono al clima generale. Così, dal giorno dopo, tutti i cittadini di
quella città presero a farsi carico di Segiuppe; ogni mattina si presentava uno
e diceva: « Oggi me ne faccio carico io », lo acchiappava, lo metteva sulle
spalle e lo portava in giro per la città, incurante dei morsi, dei pugni, degli
schiaffi e dei pizzicotti che Segiuppe con innato senso dell'uguaglianza
distribuiva a ciascuno. Poiché erano tanti e Segiuppe era piccolo, il peso quasi
non si sentiva: per un giorno! Ma dài e dài passava il tempo e Segiuppe
cresceva: farsene carico diventava sempre più difficile. Solo alcuni giovanotti
resistevano tutta la giornata con Segiuppe sul groppone, i più dopo un paio
d'ore crollavano.
E i giovanotti, poi, erano seccati di dover sempre star lì a
bloccargli le mani per non arrivare dalla morosa, la sera, tutti segnati. Si
decise di acquistare un carrozzino, tirato da un cavallo. Il sindaco approvò, la
regione dette il suo assenso, i contribuenti tirarono fuori i soldi e Segiuppe
fu scarrozzato, che volesse o non volesse, per tutto il santo giorno per le
strade della città. Sul carrozzino era stato scritto, perché i cittadini non
dimenticassero: questo è Segiuppe, tutti dobbiamo farcene carico, deve restare
sul territorio.
Una volta un ragazzino, forse un po' invidioso del carrozzino,
chiese:
« Ma perché non gioca un poco con noi? », ma il padre gli diede uno
smataflone e gli disse: « Zitto, stupido, Segiuppe è diverso e noi dobbiamo
accettarlo così com'è: se diventasse come te, che diverso sarebbe? ».
Nessuno se lo portava a casa, perché doveva restare sul territorio e
nessuno stava a cercare di farlo parlare, perché bisognava accettarlo così
com'era. Bisogna sapere che in quel paese tutti avevano paura della violenza e,
benché qualche mattacchione ogni tanto lanciasse un petardo per spaventare il
popolo, nessuno avrebbe costretto un altro a fare alcunché. Figurarsi
costringere Segiuppe a parlare. La libertà di parola era considerata sacra. Se
qualcuno, con mezzucci, avesse niente niente tentato una cosa del genere,
sarebbe stato bollato degli insulti più atroci; violento, tecnocrate e
individualista era il meno che potesse aspettarsi.
Ma il tempo passava, impietoso.
Rimano andava già all'università, già era entrato in quella fase
della vita, lunga in quel paese, in cui si cerca lavoro: e Segiuppe sempre sul
carrozzino. I genitori, poi, diventavano vecchi. Anche lui aveva, ovviamente,
cambiato aspetto. Sempre però con quello sguardo strano, un po' selvatico e un
po' assente. Di tanto in tanto, ma di rado, mollava uno sberlone a qualcuno
senza tanto pensarci su (o, chissà, ci pensava ma non si capiva). Bisognava
radergli la barba tre volte la settimana, aveva deciso il sindaco all'atto di
far la delibera per pagare il barbiere, e, al tempo stesso, imboccarlo.
I genitori si sentivano anche a disagio: tutta questa gente che si
dava da fare per Segiuppe e loro che provavano un sentimento misto, come se
glielo portassero via, da un lato, e se non si fosse mai fatto niente davvero
per lui dall'altro. Poi si sentivano in colpa di pensare cosi di gente che li
aveva aiutati tanto e piangevano. I vecchi! Ritornano bambini, si sa.
Segiuppe, intanto, era ancora sul territorio ma, poiché il cavallo
che tirava il carrozzino era morto e trovarne un altro era un'impresa, e poi
costava tanto con i tempi duri che correvano, era stato allocato nei giardini
pubblici, che erano ben grandi, come sempre nelle città di quel paese. Più sul
territorio di così, dissero tutti, e quasi se ne scordarono. Sennonché un giorno
cominciò a circolare la voce che si masturbava, proprio li, in mezzo al
giardino, senza, immaginate, il minimo senso della vergogna.
Fu cosi che anch'egli ebbe una funzione socìale, anzi, a vero dire,
un reale lavoro: si pensò infatti che, lungi dal primere il fenomeno, bisognava
in incoraggiarlo, se era possibile. Comunque era bene che, contrariamente alle
opinioni di alcuno, lo vedessero anche i ragazzini delle scuole: così avrebbero
imparato a tollerare la diversità in tutte sue manifestazioni. Dunque nei
programmi di educazione sessuale fu inserita una gita al parco: si spiegava voce
suadente la sessualità dei diveri, e come bisognasse accettarla. Beninteso era
la sessualità dei diversi.
E qui la storia volge alla fine, tristemente perché la fine è la
morte dei genitori che, inzaccherato o cencioso che fosse; acchiappavano
Segiuppe ogni sera, se lo ripulivano e se lo mettevano a letto. Ma morti loro,
che fare? Il fratello, per necessità di lavoro era emigrato, parenti non ce
n'erano. Si riunì il consiglio comunale, si riunirono il consig]io di quartiere,
ciascuno propose qualcosa e le proposte andarono vagliate, poi ridimensionate,
poi riunite, quindi meditate e di nuovo discusse: insomma passò del tempo.
Qualcuno, intanto, visto il tempo passava e Segiuppe restava
territorio, gli aveva costruito un capannino di frasche e lui vagolava tra
dentro e fuori, sempre zitto come un pesce, forse, con uno sguardo ancora più
triste. Il capannino fu visto, fu considerata una proposta popolare, dunque
giusta e fu elaborata una proposta: di costruire una casetta li, nel parco, per
Segiuppe, anche con un appartamentino per un custode, che gli badasse un po' e
un po' tenesse in ordine il giardino. Era la soluzione giusta, tutti lo capirono
subito, ma come chiamarla?
Qualcuno proposte: Nimacomio? E così fu.
E vissero felici e contenti per un secolo e più.

1 commento:

Crystal ha detto...

Ma l'hai inventata tu?
Ero convinta, mentre leggevo, che fosse di Due passi